Quella che stai per leggere è una delle “fiabe della ciclicità”, ossia una delle narrazioni personali e originali nate in seno al Ciclo di incontri base – Risveglia la saggezza del tuo ritmo ciclico con l’ausilio del SoulCollage®. Tutti i diritti sono riservati.
C’era una volta una clessidra custodita all’interno di una montagna. Da tempo immemore faceva scorrere in un ciclo perpetuo gocce di sangue anziché granelli di sabbia, sotto l’occhio esperto e vigile di Drago e quello innocente di Cerbiatto. Un giorno come un altro, senza alcun preavviso, una goccia di sangue smise di essere chi era.
– Io sono diversa, si diceva la goccia di sangue. Io non sono come le altre.
In verità non si era mai sentita parte di quel flusso. Si sentiva diversa, addirittura “speciale” e, a dirla tutta, con un po’ di dispiacere per la sua diversità misto a un senso di superiorità rispetto a quella massa di gocce tutte uguali, si convinse di essere una goccia di rubino, una gemma preziosa, che difficilmente si sarebbe integrata in quell’ingranaggio di rossa perfezione liquida.
Fu così che la goccia di sangue che si credeva una goccia di rubino lasciò la clessidra e se ne dimenticò.
Zaino in spalla e scarpe da trekking, l’anima di rubino iniziò il suo viaggio incarnandosi in un uomo. Dalla cima della montagna vedeva la vastità del mondo. L’aria gli gonfiava i polmoni di gioia. Era tutto perfetto: il verde mantello che copriva la terra, il sorgere del sole che squarciava le nubi e lo illuminava con una cascata di luce dorata. Era tutto suo.
Solitudine.
Silenzio.
Infinito.
Dietro di sé la porta si era chiusa e l’unica cosa che sapeva era che doveva trovare la chiave per poterla aprire e accedere ai suoi segreti.
– Non hai bisogno di bussole per trovare ciò che cerchi: fidati del tuo intuito, entra dentro te stesso.
La voce femminile arrivò dall’alto. Vide un piede enorme pronto ad affondare, gambe di pelliccia appartenenti a un essere che sembrava provenire da un altro pianeta, tanto grande che l’avrebbe potuto schiacciare come una formica.
– Non hai bisogno di bussole per trovare ciò che cerchi: fidati del tuo intuito, entra dentro te stesso. Tuonò la voce della gigantessa. L’uomo non capì ma si mise in cammino.
Viaggiò a lungo, per mare e per terra.
Una strega dall’aspetto giovanile ma dai capelli bianchi che tradivano la sua saggezza, lo osservava col suo occhio di gallina e col suo dito ne tracciava il percorso. Era arrivato il momento di cambiare pelle.
Muta viandante. Gira occhio di gallina. Rosso sangue. Lacrime di rubino.
Col dito a mo’ di mestolo, la strega girò e rigirò sulla superficie del calderone che come uno specchio rimandava l’immagine ridimensionata dell’uomo.
Muta viandante. Gira occhio di gallina. Rosso sangue. Lacrime di rubino.
La strega sfiorò la mano della creaturina riflessa dal pentolone, che subito iniziò a sanguinare senza sapere perché. Ora era una ragazza. Aveva scordato chi era e cosa era accaduto. Faceva come tutte le altre ragazze: si divertiva a fare cose senza senso e talvolta avventate, appagava appetiti e desideri, si vestiva in modo vistoso e si allungava le ciglia per mettersi in mostra, intrecciava di piume cremisi e turchese i capelli come un’indiana e esaudiva i piaceri dei cinque sensi. Ma nella società si sentiva nuda, fragile e vulnerabile.
Decise di sposarsi con sé stessa e di conoscere il mondo: viaggiare la rendeva felice, vedere i colori vibranti dei paesaggi stagliarsi sul cielo blu acquietava per un po’ quel dolore sotterraneo che non la lasciava mai. Conobbe popoli e lingue diverse e approdò in una comunità dove donne indigene condividevano con naturalezza la gioia e la responsabilità della maternità. Trascorse così un periodo della sua vita: era una tartaruga di terra che si era fermata nel letto di un fiume e che andava peregrinando alla ricerca di una risposta che nessuno le poteva dare. Un giorno sorprese tutti deponendo un uovo.
L’acqua indigena si trasformò in un grande lenzuolo turchese che mani di madre tentavano di distendere.
Ora era un bambino con occhi azzurri innocenti ipnotizzati da una mela rossa. Il bambino che non sapeva neanche camminare afferrò il frutto con entrambe le mani. Ne sentì il profumo dolce, la buccia liscia, si immerse nel suo colore, era un dono che aveva abbracciato con tutto sé stesso.
La mela doveva essere caduta da un albero antichissimo le cui radici intrecciate e apparentemente secche ricoprivano una vasta superficie di un bosco magico dalla fitta vegetazione. Qui viveva la fata turchina che conosceva bene questi luoghi e invitò l’innocente sulla soglia dell’albero secolare. La donna indossava un abito di zaffiri, diamanti e topazi che illuminavano l’antro buio. I suoi occhi erano due pozzi profondi senza fine e la sua voce era suadente e cavernosa.
– Questo, disse la donna blu, è l’albero della vita.
Il bambino, incuriosito, si tuffò senza indugio nel ventre della terra. Precipitò nel nulla cosmico. Senza gravità. Senza peso. Un cosmonauta in nuce. Fluttuava verso il basso nell’oscurità più cupa. Percepiva le pareti uterine dell’albero allargarsi e stringersi, da una prospettiva di allontanamento, come attraverso lo zoom di una macchina fotografica; come una successione di fotogrammi vide sé stesso a ritroso in tutte le forme e poi, quasi una filastrocca, un canticchiare di bambini che saltano alla corda o fanno il girotondo in un cortile di scuola durante la ricreazione.
Abito di-amanti – Fata turchina.
Bimbo in giù.
Uova di Tartaruga.
Donne indigene.
Vergine sanguinaria.
Strega-Streghetta – Occhio di gallina.
Gigantessa tuonante.
Viandante in su.
Goccia di rubino.
Goccia smemorata.
Il tempo e lo spazio erano infiniti. Sempre e mai. La cantilena si ripeteva e si affievoliva. Respirava come una medusa in fondo all’oceano. Dilatazione, espansione della coscienza, profondità. Non percepiva più il corpo né le sensazioni fisiche.
Poi una voce con un che di familiare, di ancestrale:
– Finalmente sei qui. Ce ne hai messo di tempo. Ti aspettavo.
Vide l’esplosione di energia che si faceva domare dalle parole e dalle mani di una bellissima giovane donna con lunghi capelli bianchi e fasce dorate alle braccia.
Chiuse gli occhi squamosi da rettile e si accoccolò ai suoi piedi, nel cuore della terra, nella sua nuova pelle di serpente.
Allora capì le parole della gigantessa.
Era a casa. Era al suo posto.
Nessuna porta, nessuna chiave, nessun bagaglio, nessun dolore. Energia pura. Parte del flusso. Come una goccia nel mare o in una clessidra.
©Her
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